Cupola di San Gaudenzio
Descrizione
Veramente, la Cupola di San Gaudenzio fu l’opera della vita, per Alessandro Antonelli. Ed è curioso, forse una semplice coincidenza ma forse no, che la fine dei lavori di completamento della Cupola stessa, nel 1888, segnò anche l’anno di morte dell’architetto. D’altronde, Antonelli accettò l’incarico giurando di “nulla risparmiare onde l’opera riuscisse meno imperfetta”. Insomma, molto di più di una semplice, quanto ardita, opera dell’ingegno. Quasi una sfida personale, una tensione verso la perfezione. Un impegno che risalta anche in merito alle questioni dei materiali da impiegare, la loro qualità e quantità: nel giugno 1861 il Consiglio comunale di Novara riconosceva ad Antonelli di “essendosi proposto a modello la natura seppe dare all’artista sua mole la maggiore elevazione col minor impiego di materiali conservandole in ogni parte la necessaria solidità”. È giudizio diffuso che Antonelli si sentisse prigioniero degli spazi e delle costrizioni del terreno, del mondo orizzontale. “Antonelli ha vissuto in uno spazio troppo ristretto: il suo genio doveva spaziare in mezzo alle sterline inglesi” è uno dei tanti giudizi su di lui dei contemporanei. Naturale fu, dunque, il guardare al mondo verticale, innalzarsi sopra la linea dell’orizzonte, senza limiti. Chi ha affiancato la Cupola a uno spartito musicale non ha potuto non notare il suo sviluppo ascendente, una intuizione quasi lirica.Antonelli ne sarebbe fiero. Nel 1841 Alessandro Antonelli consegna il primo progetto della Cupola, che viene esposto in Municipio con grande approvazione. Pensando a come sarà il progetto finale, quel primo cimento appare ben poca cosa. Il secondo progetto è del 1855, cui segue l’ultimo balzo verso il cielo, con il progetto del 1860, quest’ultimo prima respinto poi approvato dal Comune. Sono ormai trascorsi quasi quindici anni dall’avvio dei lavori del primo progetto, con la costruzione di otto arconi portanti, e il cantiere sembra prendere decisamente velocità: dal 1875 al 1878 la Cupola si innalza e, il 16 maggio 1878, viene completata con la statua raffigurante il Salvatore, posta sulla sommità della cupola stessa. E infine dieci lunghi anni per lavori di completamento. Benché unica, la Cupola di San Gaudenzio si inserisce appieno negli stilemi del “secolo senza architettura”, l’Ottocento, in cui le correnti romantiche segnavano la cultura in generale e il neoclassicismo spadroneggiava con i suoi modelli nell’arte. Una cupola che è anche una raccolta di primati: fra le più alte cupole realizzate in mattoni; certo, di poco più bassa dell’altra realizzazione antonelliana, la Mole di Torino, ma più alta della gran guglia della Madonna sul Duomo di Milano. Infine, gli uomini che hanno legato il proprio nome alla Cupola: dagli scalpellini Guglielminotti, Rusca, Travaglini, Simonetta e Zaccheo, senza scordare gli assistenti dell’architetto nella direzione dei lavori - Giuseppe Magistrini, Francesco Pedoia e Placido Manghera - e ancora Giuseppe Bottacchi, che con la sua fornace realizza e cuoce i milioni di mattoni necessari all’opera, mattoni che risultano “di qualità eccellente, adeguato il loro grado di cottura” caratteristiche importanti, unite alla riscontrata buona qualità delle malte. Progettata da un architetto, dedicata a un Santo, la Cupola reca sulla sua sommità la statua dorata del Salvatore opera dello scultore Zucchi, una scelta non scontata, una vera questione ideologica. Il nome di Antonio Conti ricorre con qualche frequenza nei discorsi sulla Cupola. Fabbro ferraio, con una attività di fabbrica di letti in ferro sul corso di Porta Milano, oggi corso Cavallotti, all’angolo con vicolo dell’Arco, Antonio Conti lanciò una pubblica sottoscrizione affinché si raccogliesse il denaro necessario a realizzare e collocare sulla Cupola il Salvatore, espressione del proletariato e della borghesia delle professioni e dei mestieri, invece di San Gaudenzio, Santo cui facevano riferimento nobili e possidenti. Come finì la contrapposizione è storia nota, Antonio Conti non raccolse mai una cifra significativa, sul suo conto acceso alla Banca Popolare non transitarono mai più di poche decine di lire, ma contribuì ad alimentare un dibattito e un confronto in una città che stava cambiando e si affacciava alla modernità novecentesca.
Testo: Renzo Fiammetti
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