Centro storico. Albergo di inizio Novecento in via San Gaudenzio
Descrizione
Una volta durante la festa patronale il babbo mi portò con la mamma a pranzo all’albergo del Mazza, sull’angolo di via San Gaudenzio, pulito, spazioso, con tanti tavoli per quattro, per sei e per comitive ancor più numerose, diretto dal pacioso Pietro Fregonara, corpulento, ma agile come una gazzella a correre da un tavolo all’altro, con un grembiule bianco attorno alla vita e un tovagliolo pendulo da una spalla, sempre lì lì per cadere. Quando ci vide, l’albergatore ci venne incontro con un ammiccante sorriso, ci fece accomodare in un angolo chiaro, dietro una di quelle grandi stufe di terracotta che faceva piacere sentirne il tepore e, autorevolmente, disse: «Per lei, sciur Erculin, il solito?»«Il solito!» rispose quasi solenne il babbo.
Egli evidentemente ordinava per sé e per la famiglia, senza preoccuparsi di chiederci se il menù fosse di gradimento; tanto, per chi andava alla festa di San Gaudenzio, sicuramente il pranzo era buono, non sarebbe stata la solita zuppa di pane di meliga e cavoli o la paniscia, sia pure saporosa, o un pezzo di salame della duja, che era il cibo di ogni giorno a casa nostra.
Mentre ci sedevamo la mamma toccava, con gusto tutto femminile, i tovaglioli e la tovaglia: «Sono di misto lino, vedi, sono molto belli». Anch’io toccavo religiosamente quel tovagliolo e me lo infilavo attorno al collo, come mi avevano raccomandato, per evitare qualche macchia sulla maglietta di lana blu, dalla gran bottoniera di madreperla che scendeva dal collo alla spalla. Venne il cameriere in giacchetta bianca e portò un bel fiasco di barbera, nuovo impagliato; subito dopo si precipitò con tre scodelle di media taglia: c’era dentro un brodo spesso, rassodato, che il cucchiaio ci stava in piedi.
«Ecco la trippa», disse, «è solo un assaggio!»
Si vede che il babbo, tutte le volte che andava al Mazza, iniziava con un antipasto di trippa, quella che, da noi e in Lombardia, si chiama gustosamente la büsecca. I miei divorarono in un baleno quell’assaggio, io invece, pur gustandolo, non ebbi la forza di andare fino in fondo, attirandomi occhiatacce dal babbo, mentre, con quel tovagliolo di misto lino si puliva bocca e baffi.
La sala a poco a poco s’era riempita di gente e una fisarmonica suonava in sordina, quasi con discrezione, tanghi languidi, intanto che una bimbetta distribuiva il pianeta della fortuna a chi dava due soldi.
Per il piatto forte venne al tavolo l’albergatore: «Sciur Erculin, il bollito gras o magar?»
«Tant!» fu la risposta impressionante del babbo che, a distanza di sessant’anni, mi suona ancora nelle orecchie; non importava che il bollito fosse grasso o magro, purché fosse tanto, a dimostrazione che c’era una fame secolare da saziare, e che il bollito misto non era cosa di tutti i giorni.
(Dante Graziosi, Storie di brava gente, in Le storie della risaia, Interlinea)
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